Domanda:
Di cosa si tratta quando si parla di gomito del tennista?
Risposta:
Il tema di oggi è notoriamente fastidioso e anche piuttosto diffuso, certamente non ignoto a chi pratica o ha praticato il tennis, ma anche il bodybuilding o la scherma: si tratta dell’epicondilite, patologia popolarmente nota come gomito del tennista.
Questa è una sindrome dolorosa localizzata sull’esterno del gomito, proprio all’altezza dell’epicondilo laterale, ossia una sporgenza ossea posta sull’articolazione fra omero e radio dal quale deriva il nome della patologia. Quest’ultima colpisce maggiormente le persone tra i 35 e i 50 anni, soprattutto di sesso femminile, e viene inserita nella categoria delle tendinopatie essendo spesso una conseguenza di una serie di microtraumi ripetuti nel tempo al livello dei tendini dei muscoli estensori del polso e della mano, oltre che influenzata da sollecitazioni muscolari eccentriche, da attività inusuali intraprese per lavoro (tra le mansioni peggiori: dattilografi, muratori, idraulici, pittori, parrucchieri, meccanici, camerieri ecc.) o per sport. É quindi fondamentale fare molta attenzione al cosiddetto sovraccarico funzionale durante i nostri gesti di vita quotidiana/lavorativa, onde evitare di cadere in questa patologia. I sintomi sono inconfondibili: come detto, forte dolore nella regione esterna del gomito che si può irradiare fino all’avambraccio (e che può arrossarsi e gonfiarsi se non viene trattato), perdita di forza, difficoltà a distendere il braccio e a compiere i gesti più ordinari e semplici. Nel caso ci si trovi di fronte a questa situazione, è consigliabile eseguire quanto prima degli accertamenti da un ortopedico che potrà, attraverso un’ecografia, diagnosticare il grado di infiammazione dei tendini.
Laddove lo specialista confermasse un caso di epicondilite, occorre innanzitutto non disperare, tenendo bene a mente che si riesce a guarire quasi sempre grazie a un trattamento conservativo e ad una riabilitazione articolata in varie fasi ed eseguita sotto la supervisione di un fisioterapista, mentre è rarissimo il ricorso all’intervento chirurgico (si parla solo del 4-11% dei casi).
Certamente il primo passo da affrontare è il riposo o quantomeno la sospensione di quei movimenti che hanno generato l’infiammazione, almeno fino alla riduzione dei sintomi. L’uso di un apposito tutore (una fascia elastica o in neoprene con all’interno una superficie dura) in questa prima fase può essere un valido supporto per creare una leggera compressione ischemica nell’area infiammata e per mantenere l’arto fermo, permettendo ai tendini di rigenerarsi. Il secondo passo è l’inizio di un percorso fisioterapico che, dopo un’accurata valutazione dell’esperto, è generalmente composto da tecniche di terapia manuale quali la trazione e la decompressione, unite a tecniche di mobilizzazione fasciale, utili per riequilibrare le tensioni fasciali presenti. A seguito di tali terapie/tecniche, si può procedere con gli strumenti antalgici quali: la laserterapia ad alta potenza, che fornisce un notevole stimolo biologico nella profondità dei tessuti; la tecarterapia che sfrutta l’abilità riparatoria dei tendini; infine, possono risultare efficaci le onde d’urto e l’elettroterapia.